sabato 29 marzo 2008

Così scriveva... (continuazione).

Il Rione C0lle contiene le seguenti strade:
1° Strada Giambattista della Valle con tre vicoli,che prende il nome da un illustre concittadino, Capitano insigne al servizio del Duca di Urbino e di Bracciano degli Ursini, non che scrittore egregio di cose militari (l' opera del nostro Giambattista della Valle intitolata: Il Vallo ossia Fioretti della milizia è divisa in quattro libri. Nel primo si parla de' Capitani, nel secondo degli assalti, nel terzo delle ordinanze militari per battaglioni; nel quarto de' duelli. Questo libro fu stampato in Venezia nel 1538, e non essendo stato più riprodotto, è diventato rarissimo).
Questa strada si apre larga, ariosa e leggiadra, ma giunto alla chiesa Parrochiale di Santa Maria di Loreto, bruscamente si restringe, diventando la più irregolare, oscura e sucida che si abbia Venafro.
Altro rimedio non sappiamo suggerire pel suo miglioramento, che il taglio inesorabile di molte di quelle luride casipole che s'incontrano direttamente dalla suddetta chiesa sino alla strada che mena a quella di S. Paolo.
2° Strada Della Vergine con quattro vicoli, la quale richiede, soprattutto, una più esatta livellazione e l'abbattimento delle scale abusivamente fatte innanzi all'uscio di varie abitazioni sul suolo pubblico.
3° Strada Cavour con sei vicoli. Abbastanza illustre è il nome del Conte di Cavour, pel quale l'Italia siede onorata tra le potenti nazioni d'Europa; per il che anche Venafro ne dà il nome ad una delle sue strade. La è ariosa e bella, ma si dovrebbe demolire l'arco di Porta Guglielmo per farle acquistare maggior pregio e vita. Dovrebbe pure esser prolungata dal trivio della strada della Vergine sino alla Strada Castello per dietro la chiesa di S. Antonio.
4° Finalmente questo rione comprende dodici case coloniche sparse per la campagna 1275 abitatori con stabile dimora 285 piani auperiori di case abitate, 95 terranei abitati e 351 famiglie distribuite per le diverse strade e vicoli.
Tibi plurimam salutem. I miei cordiali saluti.
Ci sentiremo alla prossima puntata.

martedì 25 marzo 2008

Così scriveva...

Francesco Primicerio Lucenteforte nella sua monografia Fisico-Economico- Morale di Venafro a riguardo del Caseggiato della nostra Città negli anni 1887-1890.
Omissis... Venafro ha una popolazione di circa 4300 abitanti. Le sue strade sono in gran parte in pendio, anguste, irregolari, e moltissimi miglioramenti richiedono e per ragioni di igiene, e per eleganza edilizia e per comodità di vita. La città è divisa in quattro rioni denominati: 1°. RIONE PIAZZA MILANO; 2° RIONE COLLE; 3° RIONE PORTA ROMANA; 4° RIONE CEPPAGNA

Nel Rione Piazza Milano sono le seguenti strade:



1°. Un largo chiamato Piazza Milano, (nella foto) posto nell'entrata della Città dalla parte degli Abruzzi.
Sarebbe un bel largo, se non vi si levasse a sfigurarlo: 1° un corpo avanzato di fabbriche
attaccato ad una torre de' tempi baronali, la quale, costruita nella metà del secolo XIV, per ordine di Maria Duchessa di Durazzo, sorella della Regina Giovanna ( Prima), sta ritta come uno spettro in mezzo al largo, conservando tuttora il triste aspetto di quei tempi rozzi e feroci. Il Municipio dovrebbe espropiare, per ragioni di pubblica utilità, quel corpo di fabbriche e demolirle; l'opera non richiederebbe molta spesa, la piazza diverrebbe più ampia e regolare, e la casa Municipale, che vi sorge dirimpetto, più appariscente; 2° una casa a quattro piani segnata col numero uno e di poco costruita sopra un'aia di circa metri quattro su cinque a forma di campanile, senz'averne l'eleganza; 3°. varie scale esterne abusivamente fatte sulla pubblica strada; 4°. finalmente certi fabbricati, che i proprietarii lasciano deformi e sucidi, nè il consiglio edilizio cura di ordinarne il miglioramento. 2°. Vicolo Marsala, deformato da due archi che lo rendono oscuro e malsano.

3°. Strada Redenzione con tre vicoli. E' una strada stretta e irregolare nè altrimenti potrebbe migliorare, che con la demolizione dell'umida e indecente chiesetta di S. Simenone coll'angolo adiacente della casa vicina. Il vicolo 1° Redenzione, nel quale vedesi una congerie di tugurii e d'infelicissimi bugigattoli, dovrebbe aprirsi sino al vicolo 2° per necessità igienica. 4°. Strada Castello che circonda l'abitato nella parte nord - est. 5°. Strada Cristo con tre vicoli. Qui si avrebbe a demolire un corpo avanzato di fabbriche ad uso di gradinata, segnato al num: 25, non che porzione della casa segnata col num.15.

6°. Strada Vittorio Emmanuele. Sarebbe questa una delle più belle e larghe strade, ma sino a che il Municipio non risolve a qualunque costo, di far costruire un muro che la sostenga e divida dai sottostanti giardini, andrà continuamente a guastarsi e restringersi per le continue e insensibili frane, cui va soggetta. Essa conduce alla piazza che porta lo stesso Augusto Nome.

7°. Strada Anfiteatro.

8° Strada Plebiscito con quattro vicoli. Si dovrebbe questa strada porre in comunicazione coll'altra bellissima detta Garibaldi, demolendo la casa segnata con n.° 48 nella strada Porta Guglielmo. Tale provvedimento vien chiesto soprattutto dall' economia della pubblica igiene.

9°. Strada Leopoldo Pilla con tre vicoli. Una via è questa che ricorda un nome celebrato e per amor di patria e per elevatezza di mente; il nome d'un Venafrano, sommo in geologia e martire dell'italiana indipendenza, caduto a Curtatone nel 1848.

10°. Srada Porta Guglielmo con due vicoli. Sarebbe ancora una bella strada. se quattro bruttissimi archi non la rendessero enormemente sconcia, e quasi priva di luce.
11°. Finalmente questo rione contiene una quantità di case coloniche, dette Masserie, sparse nella parte orientale e meridionale della campagna.
Ringrazio
Secondo l'ultimo censimento fatto al 31 Dicembre 1871, questo rione contiene 1984 abitatori fissi, 450 piani superiori di case abitate, 93 bassi terranei e 469 famigli
Vi saluto cordialmente e a risentirci alla prossima puntata. Ciao.




venerdì 21 marzo 2008

Un apologo dal titolo: Un segreto confidato...

L' ostrica quando la luna è piena si apre tutta, e quando il granchio la vede, dentro le getta qualche sasso o festuca (fuscello di paglia).
Impotente a rinserrarsi essa è allora cibo del granchio.
Così fa chi apre la bocca per dire il segreto suo, che si fa preda dello indiscreto uditore.

martedì 18 marzo 2008

LA NOVELLA DE' TORDI- MERLI.

Antonio Guidi era un assai abile calzolaio di Pistoia, che, facendo buoni guadagni, volle accasarsi, e sposò una onesta fanciulla di Prato, buona, timorata di Dio, e martire del lavoro; se non quanto era un poco ciarliera e caparbia; con la quale visse in concordia due o tre anni, andando sempre le loro cose di bene in meglio, e facendo vita molto agiata, e lietissima, raramente turbata da' piccoli diverbi che ci sono sempre tra moglie e marito: tanto che erano l' invidia de' loro pari. Accadde una volta che ad Antonio furono mandati a regalare, da un suo ricco avventore, due be' mazzi di tordi, e un par di fiaschi di vino eccellenti. Ricevuta questa grazia di Dio, egli la mandò subito alla moglie per un ragazzo di bottega; e dille che i tordi gli faccia arrosto, e alle due sarò a casa. Scoccate le due, Antonio va a casa, e appena salite le scale, la prima cosa domandò : - E' all'ordine?- E la Lena:- Scodello subito-. Lavatosi Tonio le mani e il viso, si mettono a tavola, e cominciano a mangiare, ragionando come solevano del più e del meno e in grazia di Dio, innaffiando spesso il cibo con un bicchierotto di quel vino, che era proprio di quello. Finito di mangiare il lesso: " Oh, disse Tonio, sentiamo un pò questi tordi! Lena vagli a sfilare. - Tordi? rispose la Lena: merli tu vorrai dire. Dico tordi io: e che arnioni (parte carnosa nelle reni dell'animale, dura e soda) che avevano! " Intanto la Lena era andata in cucina, e torna co' tordi così croccanti e fumanti che dicevano mangiami mangiami; nè gli sposi se lo lasciaron dir due volte, e cominciaron a darci dentro con nobile gara. " Io, disse Tonio, ho mangiato poche volte tordi così saporiti. - E batti co' tordi, rispose la Lena, ti dico che sono merli. - Tu se' una merla! ma che mi vuoi dare ad intendere? Sono tordi e anche buoni. - Come c'entra la merla? non importa canzonare. Del resto io son figliuola d'un famoso cacciatore, e ho visto più tordi e più merli, che tu non hai capelli in capo: me n'avrei a intendere, eh? Sta certo che son merli. Scusa, va a pigliar le penne. - E la Lena va e torna con le penne.
- Lo vedi, ripiglia Tonio, non sono brizzolate? I merli le hanno nere. - O brizzolate o non brizzolate, son merli. - Guarda, ecco qui la lettera di chi me gli manda; guarda: due fiaschi di vino e dodici tordi. - E' uno sproposito; doveva dirci merli. - E tu dici che se' figliuola d'un cacciatore? Si vede che da tu' padre ci hai imparato poco , poichè questi son tordi tordissimi. - E seguita a trattar male e a canzonare! E' questo il modo di trattare una moglie? Già me lo avevan detto prima di sposarti che tu eri un omaccio! Ora non gli basta l'impugnare la verità conosciuta, negando che questi son merli, vuole anche maltrattare! - Ma chi ti maltratta, poco giudizio? Tu maltratti, che m'hai detto che sono un omaccio. Se avessi dovuto dar retta io alle ciarle, non t'avrei sposato di certo. Ma ora questi discorsi non c'entrano: la questione è sui tordi, e questi son tordi. - Che chiacchiere? disse allora la Lena tutta inviperita, e rizzandosi con le mani sui fianchi. Che puoi tu dire, o tu altri, del fatto mio? Guardate, per una picca, in che gineprai entra, questo briacone (ubriacone)! Se la sbornia non ti fa distinguere i merli da' tordi, ci ho colpa io?".
Insomma di parola in parola si riscaldò tanto la disputa, che Tonio, il quale aveva un pò bevuto, mise le mani addosso alla Lena, la quale però, benchè tutta lividi, badava sempre a dire che erano merli. Questa lezione per allora fece buono: si rimpaciarono presto: e de' merli non si fiatò più; ma venuti l'anno dopo al giorno stesso che seguì il litigio, ed essendo Tonio e la Lena a tavola tutti d'amore e d'accordo, la Lena ad un tratto:" Ti rammenti, Tonio, finisce l'anno. - L'anno di che? - Gua', de' merli. - Ah, già: ma guarda che dirizzone tu pigliasti! E dovevan esser merli per te! - Dovevano essere? erano, tu ha' a dire". E d'una parola in un'altra si rinnovò la tragedia dell'anno passato; e così avvenne per più anniversarri. La buona Lena era di complessione (corporatura fisica) delicata e non troppo ben disposta di visceri, per la qual cosa spesso era costretta di ricorrere a medici ed a medicine: e Tonio ne stava dolente, perchè, da piccosa (puntigliosa, scontrosa) in fuori, e un pò capricciosa, era una buona moglie, e le voleva bene davvero, nè quelle sfuriate periodiche erano sufficienti a scemarlo ( a scemare il ben che le voleva) .
Una volta, nel principio dell'autunno, la malattia si affacciò più minacciosa, ed il medico storceva fieramente la bocca ogni volta che le andava a far visita, nè celava i suoi timori al povero Tonio, il quale non sapeva darsene pace. Ogni giorno la malattia si faceva più grave e più paurosa, e ben presto ogni speranza fu dileguata: e la povera Lena, sempre in perfetta conoscenza, come sono generalmente sino all'ultim'ora i malati di consunzione (grave deperimento fisico), si era già rassegnata a morire.
Un giorno, verso la fine di ottobre, avuti che ebbe i sacramenti, chiama lì al capezzale il marito, e prendendolo amorosamente per mano: " Tonino mio, gli dice con quel filo di voce che tuttor le rimaneva, io ti lascio; ci rivedremo in Paradiso. Ti ho voluto sempre bene; e ti chiedo perdono se qualche volta ti ho dato de' dispiaceri".
Il povero Tonio piangeva come una vite tagliata, e tra' singhiozzi diceva:" Lena mia, che dici di dispiaceri? tu se' stata sempre buona, e sempre ti ho voluto bene. E se qualche volta... ti chiedo perdono io.- Ah, di que' merli eh? Si avvicina il tempo, ed io sarò morta. Sì ti perdono ogni cosa. Ma ora ne sei persuaso che erano merli? - Sì via, povera Lena, erano merli". La Lena fece un sorriso, porse la bocca da baciare al marito, e in quel bacio spirò.

Pietro Fanfani.

Pietro Fanfani fu un insigne filologo e lessicografo. Nacque a Pistoia nel 1815, morì a Firenze nel 1879. La sua opera maggiore è il Vocabolario della lingua italiana. Scrisse anche novelle, racconti, apologhi, il Plutarco maschile (biografie di uomini celebri, Il Plutarco femminile (biografie di donne insigni), Lingua e nazione, Il fiaccheraio e la sua famiglia, ecc.
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La vita è un sogno.

Sì, noi viviamo in siffatto mondo, chè altro non è il vivere che sognare. L'uomo sogna, me lo insegna l'esperienza, e non sa distinguere il sogno dalla realtà.
Il re sogna di essere re, e vive in questa illusione, comandando, disponendo a sua voglia, e governando. Gli applausi che egli si compiace di ricevere, sono scritti nel vento, e la morte li converte in cenere. Sogna il ricco della sua ricchezza, che gli dà tanti pensieri; sogna il povero, credendo di soffrire povertà e miseria. Sogna colui che si studia di innalzarsi; sogna colui che si affanna a conseguire qualcosa; sogna colui che opprime e offende. Nel mondo, in conclusione, tutti sognano di essere ciò che sono, - quantunque nessuno sia persuaso di ciò. Che è la vità? Un delirio.
Che è la vita? Una illusione, un'ombra, una menzogna; e il bene più grande è il piccolo; perchè tutta la vita è un sogno e tutti i sogni che si vanno facendo sono un sogno.

Calderon De La Barca il più grande commediografo spagnuolo (1601- 1681). - La vita è un sogno è appunto il titolo d'una delle più famose sue produzioni drammatiche. La traduzione è di C. Z. ).

giovedì 13 marzo 2008

I primi passi di Giuseppe Verdi.


Un critico musicale ha definito Giuseppe Verdi un contadino eroe. Nulla è più vero. C'è in lui la stoffa rude dell'uomo del solco, la purità dello sguardo assuefatto al vasto orizzonte della campagna la gagliarda salute del corpo e dell' anima che respirano a torrenti luce e ossigeno; e c'è l'eroe, la volontà tesa verso il bene, il genio di lotta e di conquista, non egoistico ma generoso, votato alla patria e all'umanità.
Era infatti un umile contadinello quello in un casolare di Ròncole, villaggio della piana parmense, cercava accordi e motivi su una vecchia spinetta ( strumento musicale a tastiera che ha preceduto il pianoforte). Suo padre ascoltava quei suoni crollando il capo: che figlio strano gli aveva dato il destino! Sempre cupo, come assorto in qualcosa di lontano e di misterioso: e pazzo, pazzo per la musica, per il suono di un organetto, per le note vitree d'un suonatore ambulante di violino! Chissà che cosa stava scritto nel futuro di quel ragazzo?
Giuseppe Verdi era nato a Roncole nel 1813, in un povero casolare, da genitori che tenevano un'umile locanda campestre e uno spaccio di vino, di tabacco e di commestibili. Si narra che fosse proprio un violinista ambulante a fargli prillare dentro l'uzzolo (fargli nascere la volontà) della musica. Gli comprarono una vecchia spinetta, e ci si esercitava a suonare e a comporre, deriso da qualcuno, osservato con interesse da altri: per esempio dall'organista di Roncole.
- Datelo a me- disse un giorno quel brav'uomo a Carlo Verdi,- ne farò qualcosa.
Ed ecco Beppino che solfeggia, ascolta, prova, fa esercizi, improvvisa, un pò nella casa tranquilla del maestro, un pò davanti all'organo in chiesa, fra ragnatele e colaticci di cera. Sotto quelle ali buone stette per cinque anni, e fece profitto che, dodicenne, poteva già sostituire l'organista vecchio e malato. Percepiva allora come stipendio dalla parrocchia una somma annua che a voi basterebbe appena per l'inchiostro stilografico: quaranta lire all'anno... Intanto studiava un pò di latino per tenersi all'onor del mondo.
Il primo balzo d'ali lo diede quando andò nella vicina cittadina di Busseto a fare il commesso e il garzone presso un commerciante che doveva poi diventare suo protettore: Antonio Barezzi. Si dà il caso che il Barezzi fosse un appassionato dilettante di flauto e sonasse il clarinetto e il basso nella banda cittadina. La casa di quell'onesto commerciante di generi coloniali era la vera accademia musicale di Busseto: ci si tenevano concerti, ci si stillava tutto il miele musicale destinato agli orecchi dei Bussetani. In quella casa armoniosa a Beppino fu permesso di esercitarsi su un pianoforte; inoltre l'organista Provesi s' interessò al giovinetto e gli prodigò lezioni e consigli. Così a sedici anni il futuro eroe dirigeva la banda di Busseto e scriveva musica molto promettente. Ma che cosa avrebbe potuto fare per tutta la vita in un piccolo centro un essere pieno di energia e di volontà come Verdi? Una borsa di studio largita dal Monte di Pietà di Busseto e arrotondata dalla generosità del Barezzi permise al giovane di recarsi a Milano per gli studi al Coservatorio. Ma a Verdi accadde com'era accaduto a Lizt (grande musicista ungherese); il Coservatorio lo respinse, perchè troppo anziano. Così Beppino dovette cercarsi un maestro che fu il Lavigna, modesto ma scrupoloso. Sotto quella guida il giovane imparò il contrappunto e l'armonia e lesse Palestrina (grande riformatore della musica sacra) e i Salmi di Benedetto Marcello(patrizio veneziano e musicista di grande valore), che ammirò finchè visse. Intanto dirigeva quache concerto e scriveva le melodie che gli erompevano dal cuore. Nel 1833 tornò a Busseto: sperava di succedere nel posto dell'organista al Provesi che era morto; ma, perseguitato da intrighi paesani, non ottenne nulla. Quelli furono anni grigi per lui: gli rivelarono il dolore e l'amarezza della lotta, ma non scalfirono il duro cristallo del suo carattere. Un dolce raggio venne a dissipare quelle ombre, quando Verdi sposò la figlia del suo benefattore, Margherita Barezzi, che tanto amava. I due sposi lasciarono presto Busseto e andarono a Milano in cerca di lavoro e di fortuna. Il 17 novembre 1839, data immemorabile! Si dà alla Scala la prima opera di G. Verdi: Oberto conte di S. Bonifacio. Il successo è ottimo. Purtroppo, l'anno dopo, l'artista è colpito da una terribile sciagura: gli muoiono la sposa e i due bimbi. L' insuccesso di una seconda opera piomba il maestro, già depresso, in uno stato di cupo sconforto. Con la rappresentazione trionfale del Nabucco (1842), opera biblica, le sue sorti si risollevano. Tutta l'Italia canta il celebre coro:

Va' pensiero sull'ali dorate...

Tutta l'Italia conosce e ammira G. Verdi. Da quel giorno la sorte dell'artista è segnata. Egli non farà che produrre e salire. Il grande operista dell'Italia moderna è in cammino. Chiuso nella casa Barezzi a Busseto, poi nella sua villa a Sant'Agata, per un trentennio martellerà sull'incudine ritmi gagliari di furore o di gioia; come il poeta cantato dal Carducci, picchiando, creerà spade per la libertà, serti di vittoria per la gloria e diademi per la bellezza.

G. E. Mottini. Dal vol. Con sette note (Hoepli, Milano).